MITA. Museo Tappeto Antico

Viale Venezia
Nicolò Fiammetti
Pubblicato il Pubbl. il 13.10.2022
Brescia Permanente
Nel 1976, Giuseppe Penone appoggia un masso di marmo vicino a un ippocastano. Ogni anno i due elementi si avvicinano di qualche millimetro, rendendo “Pietra e Albero” una simbiotica unità di misura dello scorrere del tempo.
Nel settembre 1976, il Consiglio di Quartiere di Porta Venezia organizza una mostra collettiva dal nome Arte e Ambiente presso i giardini di Rebuffone, in viale Venezia. Tra gli artisti chiamati ad intervenire si ravvisano molti dei protagonisti della scena artistica nazionale e internazionale degli anni Settanta. Giovanni Anselmo, Enzo Bersezio, Roberto Comini, Guglielmo Achille Cavellini, Antonio Faggiano, Gineba, Luigi Mainolfi, Marisa Merz, Mario Merz, Giuliano Mauri, Giuseppe Penone, Gilberto Zorio, Valentino Zini con un gruppo di Architetti e i fotografi Ken Damy e Valerio Vitali.
Sin dal titolo della rassegna, Arte e Ambiente, è possibile collocare l’evento in un orizzonte culturale preciso, quello definito dal dibattito sulla crisi del modello urbano funzionalista, apertosi in Italia dopo la vertigine tecnologica degli anni Cinquanta e Sessanta. In questi decenni, infatti, “la teorizzazione dell’urbanistica quale strutturazione dello spazio urbano in funzione del capitalismo e delle sue connesse esigenze di comunicazioni e percorsi” (1) aveva creato un cortocircuito sulla funzione della città e sul concetto stesso dell’abitare.
I lavori presenti in mostra, nel 1976, sono da leggere sotto questa luce: l’ambiente del titolo si riferisce allo spazio abitabile, all’ambiente-città, allo spazio come interrelazione e al ripensamento del rapporto tra abitante e spazio. Non si tratta quindi di opere di Land Art perché non è previsto un intervento diretto sul paesaggio o un’alterazione (permanente o impermanente) che modifica equilibri naturali. Nelle opere collezionate in occasione della rassegna del 1976 il tema ecologico non è nemmeno il centro della creazione artistica (o, per meglio dire, dell’ideazione delle opere, poiché molte di esse non sono propriamente “fabbricate” ma sono piuttosto il frutto un atto concettuale che cambia il significato di un oggetto già esistente). Arte e Ambiente raccoglie quindi dei lavori in grado di suscitare una mobilitazione (corporea, prima ancora che mentale) verso l’identificazione di un nuovo paradigma dell’abitare.
In altre parole, gli artisti chiamati a partecipare ad Arte e Ambiente non hanno proposto “modificazioni dell’ambiente urbano (…) ma una sollecitazione di concetti e di comportamenti, diretti a catturare la mobilità intellettuale di una città (psicologica, culturale e politica) e “farla riflettere su una problematica” (2). Un invito alla fruizione attiva che prende coscienza dello spazio come luogo di scambio e dialogo e non di consumo. Le opere fortificano questa intenzione comunicativa: alcune sono attraversabili, riempibili, altre sono invece ludiche (come le Balle di Paglia di Valentino Zini, disposte a cubo dall’artista e in seguito sparpagliate dai bambini nel parco); oppure più essenziali (come i due piccoli foglietti attaccati da Roberto Comini dietro a due monumenti, recanti un testo a lettere rovesciate. Simili a interruttori da innescare, i fogli capovolgono il senso di significante e il significato).
Crediti: Giuseppe Penone
Giuseppe Penone: spazio, tempo, corpo
In francese, la parola aître (dal latino atrium) ha la particolarità di rinviare foneticamente al verbo “essere“ all’infinito (être). Aître indica l’atrio, un luogo aperto, un terreno libero, ma anche la disposizione interna degli spazi di una casa. Con il tempo la dizione ha finito per indicare la coscienza e l’abisso del pensiero. Nel termine Aître, la nozione di spazio fisico si sovrappone quindi a quella dell’essere3.
Anche nell’arte di Giuseppe Penone la ricerca sullo spazio sconfina nello studio sull’essere, inteso come esistere corporeo e facoltà di percepire attraverso i sensi. L’artista, il più giovane tra quelli reclutati da Germano Celant nel gruppo Arte Povera, articola le prime espressioni del suo linguaggio creativo in azioni semplici svolte nella natura, sulla natura, modificando la stessa. L’essere corporeo si ritrova spesso ad essere agente e unità di misura di uno spazio ambientale che viene impresso, scavato, percorso o addirittura interrotto. Come nel caso dei fusti di albero delle Alpi Marittime, la cui crescita viene interrotta dal calco in bronzo della mano dell’artista. È il corpo che entra nell’ambiente e ne altera il processo di crescita: una processualità gestuale interconnessa al primo processo in assoluto, quello della crescita della natura.
Sono diversi i lavori in cui Penone influenza una crescita organica naturale attraverso un gesto. Non è però il caso della mostra “Arte e Ambiente” (1976). In questa occasione, l’intervento sulla natura avviene in maniera più delicata, tramite un processo di avvicinamento e non di compenetrazione.
Nel Parco di viale Rebuffone, Giuseppe Penone appoggia un masso di marmo di Botticino vicino a un ippocastano. La roccia deposta appare grezza solamente a uno sguardo disattento, poiché è sufficiente visionare il retro per notare delle scanalature che, nelle parole di Costanza Lunardi, richiamano “in forma assai minimalista le colonne di un tempio dorico”(4) . Il sasso, simile ad un felino ai piedi dell’albero, è stato negli anni vandalizzato e reca ora le tracce di una tinta blu accesa.
Per comprendere il messaggio di Penone, la metamorfosi da osservare da vicino non è quella dei singoli componenti di questa scultura assemblata, quindi il sasso e l’albero nella loro separatezza, bensì la relazione che intercorre tra gli stessi. Nel corso di 50 anni la distanza tra tronco e marmo è cambiata, si è ridotta, e arriva oggi a segnare dei punti di tangenza. Questo avvicinamento demarca in maniera molto evidente il trascorrere del tempo: la storia dell’opera si misura in millimetri. Penone aggiunge così all’essere/aître e allo spazio fisico anche un terzo fattore, quello temporale, che prima separa l’albero e il sasso, e che ora li unisce.
Questa riflessione è ben riassunta da un quesito espresso da Georges Didi-Huberman: Questione di sedimenti, interstizi, contatti. La scultura è forse il luogo dove noi tocchiamo il tempo? (5). La scultura di Giuseppe Penone in viale Venezia ricorda, da decenni, che le conseguenze delle azioni umane hanno spesso un impatto visibile solo sul lungo termine. Queste azioni, se compiute in maniera consapevole e non invasiva, possono indirizzare la natura ad un avvicinamento lento e graduale con altri elementi dello stesso ecosistema. L’ avvicinamento in viale Venezia diventa indicatore non solo di spazio, ma anche di tempo e quindi di esistenza. Oggi i bambini cavalcano la roccia, i più curiosi spiano dalla fessura che si apre tra albero e marmo. Al momento è larga soli 50 anni, forse tra altri 50 anni sarà larga qualche millimetro in meno.
1. Mirella Bandini, in Arte e Ambiente, Vannini, Brescia, 1976, p. 3
2. Ibidem
3. Georges Didi-Huberman, Su Penone, Electa, Milano, 2000, p. 14
4. Costanza Lunardi, Il lungo abbraccio tra il sasso e l’albero, in “AB”, Autunno 2017, il Grafo, p. 37
5. Georges Didi-Huberman, Ivi, p. 23